Andrea De Pasquale

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A urne fredde: tre lezioni dalle elezioni (verso Bologna 2009)

29 aprile 2008

TRE LEZIONI DALLE ELEZIONI (VERSO BOLOGNA 2009).

Non voglio fare la parte di quello che l'aveva previsto: pensavo che alle politiche l'improvvisato accordo tra Berlusconi e Fini (dopo mesi di reciproche contumelie) attraesse meno consensi, non mi aspettavo il trionfo della Lega (piuttosto assente dagli idolatrati spazi televisivi) nè la vittoria di Alemanno a Roma. Considero però prezioso e non scontato il 33% raccolto dal PD, che con questi numeri (solo il 4% sotto il PDL, uno stacco facilmente colmabile con una opposizione coerente, nitida e costruttiva) ha l'opportunità storica di definire meglio la propria fisionomia riformista e innovatrice, di aumentare la coesione interna, e di assumere un ruolo incisivo nel Paese. Tuttavia dalle urne mi sembrano uscire alcune lezioni che vanno accolte.

La prima è una lezione di umiltà.

Nei commenti e nelle interviste postelettorali di esponenti storici della sinistra, laddove interpretano il responso delle urne, ricorrono parole come "involuzione sociale", "arretratezza culturale", "fragilità intellettuale", "pericolosa deriva", e via sentenziando. Continua insomma, anche dopo la sconfitta, "la supponenza di essere - cultura e politica della sinistra - superiore per definizione", come ha scritto Marina Corradi su Avvenire (17 aprile). Da qui l'armamentario giustificatorio degli elettori che non hanno capito, degli errori di comunicazione (mai di pensiero, mai di azione), e infine lo snobista (e tanto scalfariano) sospiro di sopportazione per trovarci a vivere in un luogo e in un tempo che non ci merita, e non merita forse nemmeno la democrazia, visto che la usa così male, facendo vincere gli altri. E per questa via, irridendo prima il folclore leghista, poi il devozionismo meridionale, poi il populismo grillesco, infine il post-fascismo borgataro, ci siamo ritrovati - noi raffinati, noi colti, noi politicamente corretti - minoranza nel paese.  Che non sia il caso di scendere di cattedra e ritornare a sedere con umiltà accanto a chi non ci ha votato, per capirne le sue ragioni, anziché ripeterci le nostre?

L'esempio di come non bisogna fare ce lo ha dato in proposito ancora una volta la Sinistra Radicale, che nel suo inossidabile dogmatismo manicheo ha riproposto il conflitto di classe in un tessuto economico dove il 70% delle aziende sono piccole imprese messe su da ex operai o ex impiegati; che ha scelto lo slogan "Fai una scelta di parte", ovvero "me ne frego dei problemi delle altre parti"; e che oggi, davanti alla sconfitta, dà la colpa agli altri, al PD, al mancato voto disgiunto (come se fosse normale in politica campare di un consenso altrui)...

La seconda è una lezione di territorialità.


La Lega non ha vinto andando a Porta a Porta, ma facendosi carico (o almeno provandoci) dei problemi concreti del territorio. Una deputata leghista eletta in Emilia Romagna è di Lampedusa: aveva rivolto un appello ai partiti per un problema della sua isola, la Lega è stato l'unico partito a risponderle e ad occuparsi del problema. Più che xenofobo, il tratto vincente della Lega è sembrata la vicinanza ai problemi del territorio, la disponibilità dei suoi amministratori verso i cittadini, la volontà di provare ad affrontare i nodi, sia pure in modo talvolta rozzo o dilettantesco. I chilometri di strada macinati dai dirigenti per incontrare ogni sera i cittadini delle periferie e delle frazioni, i cellulari sempre accesi, la prossimità ai problemi reali degli elettori hanno contato, credo, più degli slogan e dei proclami, spesso sgangherati. Ma territorialità vuol dire anche scegliere come candidati persone conosciute e apprezzate sul territorio per il lavoro che svolgono in mezzo ai cittadini. Invece le liste composte nel "loft" (luogo frivolo sin dal nome) hanno spesso saltato i quadri locali, alienandosi simpatie e reti locali di appoggio. Mi scrive un amico da Verona: "Qui ci dovremo sorbire il leghista Calearo, che solo 2 anni fa sbraitava per lo sciopero fiscale contro Roma Ladrona. Si strizza l'occhio ai mal di pancia del nord-est e si schifa chi come me tanti altri non li ha mai condivisi. Sono più i voti che si perdono di quelli che si prendono, in questo modo". Fatico a dargli torto.

La terza è una lezione di credibilità.


Succede così: che gli elettori trattano peggio chi li delude avendoli illusi, rispetto a chi nemmeno li ha illusi. La destra non ha mai promesso partecipazione e democrazia interna: ha semplicemente chiesto agli elettori una delega per avere mani libere. Noi a sinistra invece abbiamo detto, e dichiarato, e promesso, che la partecipazione e la democrazia interna sono valori fondativi del nostro stile politico. Ci sembrava bello dirlo, e scriverlo, e così abbiamo fatto. Adesso però dobbiamo agire in coerenza, sennò veniamo bastonati dai nostri sostenitori peggio che mai: se non eravamo decisi a mantenere, sarebbe stato meglio non promettere nulla.

Ha dunque ragione Parisi, che sull'Espresso del 16 Aprile pone un problema di credibilità della classe dirigente di un PD dove "Veltroni ha caricato tutta la novità sulle sue spalle, sulla sua leadership", mentre intorno, negli organi dirigenti, negli apparati locali, nelle liste si operava nella più rigorosa continuità. In questo modo «i numeri assoluti ci dicono che il centrosinistra rispetto al 2006 ha perso per strada più di tre milioni di voti. Che fine hanno fatto questi tre milioni di persone? (...) Purtroppo le primarie che hanno eletto Veltroni invece di fondarsi su un confronto sul futuro, hanno preferito essere una conta e una somma di liste che venivano dal passato. E così è stato per le due assemblee costituenti nelle quali la celebrazione ha preso il posto della discussione. Il risultato è stato che il Pd è stato chiamato a parlare prima di aver avuto il tempo di pensare, almeno a livello collettivo», conclude uno dei padri fondatori dell'Ulivo.

Mia conclusione tutta bolognese di questo ragionamento: dopo aver scritto nello Statuto del PD (articolo 18) che lo strumento naturale per la selezione dei candidati del PD sono le primarie, in vista delle amministrative 2009 non possiamo permetterci di arrivare tardi, di trovarci in stato di emergenza, di dire ancora una volta che "non c'è tempo" per una consultazione vera e aperta della base del partito su nomi e programmi dei futuri leader locali. Ne andrebbe irrimediabilmente della nostra credibilità presso i nostri sostenitori ed elettori, con immediati riflessi in termini di delusione, demotivazione e quindi di risultati elettorali.

A questo rischio credo si possa porre rimedio in un solo modo: definendo rapidamente, entro metà giugno, un regolamento chiaro che renda effettivamente praticabili a Bologna delle vere consultazioni primarie, entrate di fatto e di diritto nel DNA democratico, e non più rinviabili. Un regolamento che incentivi, e non scoraggi, la presentazione di candidature, prevedendo soglie accessibili a chi ha idee e proposte politiche. Se malauguratamente dovessero invece prevalere le cautele e le paure di chi è disposto a giocare solo le partite già vinte a tavolino, temo che la dura lezione di Roma possa ripetersi anche qui a Bologna.

(29 aprile 2008)
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