Andrea De Pasquale

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Bologna e dintorni, novembre 2010 (solo PD)

Bologna, 3 dicembre 2010.

Novembre è stato, dal punto di vista della politica bolognese, un mese vissuto davvero pericolosamente.

Ci eravamo salutati il 13 ottobre scorso, in un quadro politico dominato dalla candidatura a sindaco di Maurizio Cevenini, superfavorito alle primarie, e con buone chances di vincere anche le elezioni. In poche settimane tutto è cambiato. Vediamo di ripercorrere le tappe fondamentali.

1. LA CONCATENAZIONE DEGLI EVENTI (BREVE RIPASSO STORICO)

2. LE PRIMARIE VISTE DA FUORI

3. LE PRIMARIE VISTE DALL'INTERNO (COL PARTITO ARBITRO O GIOCATORE?)

4. I CANDIDATI IN CAMPO E LA MIA SCELTA.

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1. LA CONCATENAZIONE DEGLI EVENTI (BREVE RIPASSO STORICO)

18 ottobre, Cevenini viene colto da un'ischemia. 25 ottobre, decide il ritiro. I candidati civici, Benedetto Zacchiroli (presentatosi come "non Cev") e Amelia Frascaroli (che intanto incassa l'appoggio del partito di Vendola, Sinistra, Ecologia, Libertà), partiti svantaggiati si trovano ora i soli giocatori in campo.

27 ottobre, Virginio Merola si candida senza chiedere il permesso a nessuno. Che vuol dire senza concordare nulla, senza negoziare appoggi in cambio di posti, senza insomma "offrire garanzie" a un sistema che invece ne ha bisogno come dell'aria (parliamo di stipendi, di posti di lavoro, non solo di gloria). Un atto di blasfemia politica nella tradizione del PD e soprattutto dei partiti fondatori. D'altronde, 2 anni fa aveva fatto una mossa analoga sfidando in campo aperto "il candidato" prescelto dal partito, ovvero Delbono il breve, per dimostrare la sua estraneità a tale investitura.

Parte allora un crescendo di appelli alla cautela, al ritiro dei candidati in campo (nel frattempo altri due, Andrea De Maria e Giacomo Venturi, fanno capire di essere disposti a correre, sia pure con una serie di condizioni che invece Merola omette), alla ricerca di una "soluzione unitaria". In proposito vengono fatti addirittura i nomi del segretario stesso, Raffaele Donini (che ha sempre dichiarato di non candidarsi a nulla, ma che viene tirato per la giacca con l'argomento dello "stato di necessità") e financo quello di Romano Prodi: nomi insomma a cui "non si può dire di no". Ma Merola non indietreggia, e dice no alle pressanti richieste di ritiro, condite di profferte varie e anche interessanti.

E siamo alla direzione dell'8 novembre, dove si assiste a un cambio di strategia da parte di chi, orfano degli accordi che Merola non ha sottoscritto, è determinato a tutto pur di fermare una macchina, quella delle primarie, divenuta dal suo punto di vista ingovernabile. Quindi ecco candidarsi De Maria (con un discorso strano, che ha come premessa la nostalgia di "consultazioni ampie" nel partito per individuare un candidato unitario, davanti al quale, a differenza di Merola, si dice pronto a ritirarsi). E, a sorpresa, si candida anche Donata Lenzi, anche lei insoddisfatta della prospettiva di una competizione aperta, alla quale però, se non si riesce a fermarla, decide di aggiungersi, contestando in più le regole che prevedono, per le primarie di coalizione, un quorum alto di consensi nel partito (il 35% dell'assemblea comunale, oppure il 20% di firme degli iscritti: numeri alti, pensati apposta per evitare che, nel confronto con i candidati di altri partiti, il PD si frammenti su troppe figure tra loro concorrenti).

L'evidente contraddizione dei due neo-candidati è questa: da un lato invocano come opportuna l'unità del partito su un unico candidato di fronte al rischio di vittoria di un civico (Frascaroli o Zacchiroli), dall'altra scendono in campo con l'effetto di dividere ulteriormente i consensi, e dando la sensazione, con tutti i loro distinguo, di farlo non per convinzione a voler fare il sindaco, ma per ottenere il ritiro di quello già in campo. La strategia è evidente: non essendo riusciti a fermare le primarie aperte (e quindi senza vincitore predestinato, con tutto quello che ne segue in termini di accordi, assetti, garanzie occupazionali) per mancanza di candidati, ora ci provano per eccesso di candidati.

Arriva il 14 novembre, e Giuliano Pisapia, sostenuto dal partito di Vendola, vince le primarie a Milano. L'effetto su Bologna è quello di un tornado: l'equazione è Vendola - Pisapia - Frascaroli.

La candidata civica inizia a fare paura, allora si abbandona la strategia "mite", e si percorre l'ipotesi di fermare le primarie commissariando il partito. Alcuni membri dell'esecutivo fanno circolare una proposta di ordine del giorno che chieda la sospensione delle primarie, di fatto sfiduciando il segretario, che sulle primarie ha giocato tutto. Fortunatamente qualche altro membro dello stesso esecutivo minaccia le proprie dimissioni se un simile documento viene anche solo presentato, e qualcun altro (del nostro gruppo, Nuovo PD per Bologna), oltre a dichiararsi disposto a fare le barricate per difendere la consultazione popolare, fa delicatamente notare che un documento politico contrario alla linea del segretario proposto da un organismo nominato fiduciariamente dallo stesso segretario produrrebbe le immediate dimissioni dell'intero organo. L'una o l'altra cosa, o forse la percezione della figuraccia che il partito avrebbe fatto davanti alla città, convincono a non presentare l'odg. Altri rilasciano ai giornali dichiarazioni su "decisioni prese e votate negli organi direttivi per azzerare tutto". Non è vero, ma tanto vale provarci. E si sprecano termini come "moratoria", "pausa di riflessione", "sospensione del percorso", "ampia consultazione", e così via.

Chi puntava, come "soluzione unitaria", al civico Andrea Segrè, perde le speranza il 16 novembre. Dopo settimane di dichiarazioni ambigue, passi avanti e retromarce, e dopo diverse conferenze stampa convocate per dire che la decisione era rinviata, il preside di Agraria finalmente dice una cosa chiara:  rinuncia a correre. E con l'occasione ribadisce la simpatia per la candidata Frascaroli.

Intanto Merola non solo non si ritira, ma raccoglie le firme dentro l'assemblea cittadina, superando il quorum: oltre 100 rispetto alle 80 necessarie (su 220 membri totali).

Ma le sorprese non sono finite, perché la mattina del 17 novembre leggiamo sul Corriere di Bologna di un nuovo candidato che si fa avanti: tal Ernesto Carbone, giovane dipendente di Massimo D'Alema, amico di famiglia di Romano Prodi, un curriculum tutto nomine politiche e poco altro, che si presenta contestando alla radice il regolamento per le primarie (vorrebbe azzerare tutto, il ragazzo, per avere "pari opportunità" rispetto agli altri concorrenti). La risposta è fredda, nessuno rimette in discussione le regole d'ingaggio, e la candidatura "sparigliante" decade in 24 ore. Evidentemente però il Carbone non aveva agito solo di sua iniziativa: si era trattato di un tentativo di aprire crepe e di lavorare su quelle per rimettere in discussione il percorso.

Così arriviamo alla sera del 19 novembre, all'Assemblea Cittadina preceduta da una giornata tesissima, con continue telefonate tra Bologna e Roma, con un inviato speciale del segretario Bersani mandato a tentare di fermare il treno in corsa, e con Merola che dice ancora no al ritiro. Poi interviene in assemblea, annuncia di avere raggiunto il quorum per le firme, e si appella alla libertà di iscritti ed elettori: "siate padroni delle vostre anime, scegliete e votate con la vostra testa. Basta ai raccomandati". De Maria, l'unico vero avversario possibile, annuncia il ritiro, non si sa se avendo o meno raggiunto il quorum di firme in assemblea.

Centrato il titolo del Corriere di Bologna l'indomani, 20 novembre: "Primarie, il PD si arrende a Merola". Cova infatti il mal di pancia dei non garantiti, e sono molti.

Nei giorni successivi si consuma l'ultimo atto di rottura. Merola dice il suo terzo "no", questa volta a De Maria, che comprensibilmente (e coerentemente con la sua storia e la sua vocazione) aveva cercato di scambiare il proprio ritiro con una "co-gestione" della campagna elettorale prima, e della situazione dopo.

Un no, quest'ultimo di Merola, che ha avuto un costo: diversi esponenti del PD, ulivisti e non, hanno immediatamente dichiarato che avrebbero appoggiato la Frascaroli, per punire Merola che non è sceso a patti e il partito che non li ha garantiti. Ma anche un no che fa onore a Merola, e che a lungo termine si rivelerà un investimento in limpidezza e libertà di azione.

E siamo all'oggi.

 

2. LE PRIMARIE VISTE DA FUORI

Come è stato letto questo travaglio dall'esterno?

I partiti avversari, PDL, Lega e centristi, hanno ripetutamente rimarcato le distanze: "Le primarie sono una farsa, e infatti noi non le facciamo e non le faremo mai". Faccio notare che anche questa sola posizione avrebbe dovuto sconsigliare quanti dentro il PD hanno operato fino all'ultimo per buttare a mare questo strumento di consultazione della cittadinanza, che resta una bandiera distintiva del nostro partito.

I giornali, naturalmente, ci hanno trovato materia abbondante articoli del tipo "esplode la faida", "partito allo sbando", "resa dei conti nel PD", e via andare, con in testa Repubblica, notoriamente equilibrata ed affidabile nella sua cronaca politica. Mi è sembrato comprensibile il compiacimento con cui il Carlino, da sempre su sponde opposte al centrosinistra, ha raccolto i mugugni degli antiprimaristi del PD e ha concluso: "E' dal 1999 che vi diciamo che le primarie sono una buffonata. Finalmente arrivate a capirlo anche voi".

Fatico di più invece a seguire il Corriere, giornale di tradizione liberale e industriale, paladino della concorrenza, del merito e del libero mercato, ma evidentemente non applicati alla politica bolognese. Perché per giorni si impegna a demolire uno strumento di democrazia diretta come le primarie, e ad auspicare come alternativa preferibile l'individuazione di "migliori", che a me non sembrano altro che espressioni delle varie caste che tengono bloccata la città. Migliori in greco si dice Aristoi. Da cui aristocrazia, opposto di democrazia. Tutto torna.

Dispiace tuttavia leggere dalla penna di Armando Nanni, direttore dell'edizione locale (ed è solo uno dei tanti esempi) "Nel Pd non vogliono sentire parlare di faide e di balcanizzazione, ma è chiaro che l'incapacità di esprimere la convergenza su un candidato unico è il prodotto di uno sfaldamento che ha radici lontane". (editoriale del 16 novembre). Perché una competizione aperta dovrebbe essere il prodotto di uno sfaldamento? Dove è finito il valore della competizione, della gara in campo aperto, della "contendibilità" del potere, principi altrove tanto cari al quotidiano di via Solferino?

Ma così gira il vento, e allora ecco un titolo: "Arriva il candidato dei grillini, nuovo ostacolo per il PD". Prossimo titolo: "Temperature in calo, PD bloccato dal gelo". E via di questo passo.

 

3. LE PRIMARIE VISTE DALL'INTERNO (COL PARTITO ARBITRO O GIOCATORE?)

La tormentata vicenda di queste settimane ha mostrato la difficoltà di un partito come il nostro a misurarsi con competizioni dal risultato incerto, dove non esiste un vincitore predeterminato, e dove quindi è impossibile prefigurare uno scenario sicuro, nel quale fare accordi preventivi, assegnare a ciascuno un ruolo e un posto, sistemare insomma in anticipo gli assetti, le cordate e gli interessi. E non è solo un problema dei vertici, ma anche di una parte della base, sinceramente impensierita, se non spaventata, dall'idea di una gara interna.

Da qui la difficoltà a restare fedeli a processi (come ad esempio le primarie) quando i risultati attesi (la vittoria facile di Cevenini) vengono meno. Allora ecco l'istinto a ridiscutere il processo, a cambiare in corsa le regole, insomma a sconfessare il principio "vogliamo governare i processi, non i risultati". Perché qualcuno non si può permettere il lusso dell'incertezza, e ha bisogno di acquisire direttamente il risultato. Ed altri hanno semplicemente paura che dividersi nella competizione interna renda più difficile tornare uniti dopo, nella gara elettorale vera.

Da qui anche la nostalgia per liturgie opache come le "ampie consultazioni", pratica di contatto telefonico o personale senza nessuna verbalizzazione, dalla quale il "consultante" trae inesorabilmente la conclusione voluta, e a quel punto spacciata come "vox populi", peraltro mai verificata.

Un amico mi ha scritto: "i burocrati preferiscono perdere che affidarsi alla scelta democratica degli elettori". E' vero, e non deve scandalizzare. Perché, come quota di potere esercitato, è molto meglio finire minoranza nell'amministrazione con un partito che controlli, piuttosto che vincere le elezioni con un partito che non controlli più. E' una scelta razionale, praticatissima a livello nazionale (da cui la famosa "assenza di ricambio"), non una follia.

Vi è poi una ambiguità di fondo legata alla differenza tra primarie di partito e primarie di coalizione. Nel primo caso la corsa è tra colleghi di partito, nel secondo caso invece mescola insieme candidati dello stesso partito e di partiti diversi (o civici), e questo cambia parecchio l'approccio, sia dei dirigenti, che dei militanti. Se nel primo caso è evidente che, almeno in teoria, il partito deve fare l'arbitro, nel secondo caso è al tempo stesso arbitro e giocatore.

L'impressione è che il PD a un certo punto ha ritenuto, a livello nazionale, di privilegiare le primarie di coalizione rispetto a quelle di partito, pensando di ottenere un doppio vantaggio: da un lato alzare il quorum dei consensi interni per poter gareggiare, restringendo così la rosa dei concorrenti interni ed evitando la "balcanizzazione"; dall'altro far pesare i propri numeri nel confronto con gli alleati, incassando con la vittoria alle primarie una legittimazione diretta, che attenuasse il potere contrattuale degli altri partiti della coalizione. Il caso di Milano ha smentito questi calcoli. Là infatti il partito aveva puntato tutto su un candidato (Boeri), senza però impedire a chi non si riconosceva nella candidatura "ufficiale" di presentare un secondo candidato (Onida). Così ha vinto Pisapia (con poco scarto), candidato di un partito minore come Sinistra, Ecologia e Libertà, ma soprattutto personalità nota e stimata in Milano. La somma dei voti di Boeri ed Onida sarebbe stata nettamente superiore ai consensi raccolti da Pisapia.

E ora ci si chiede, giustamente, se non sia il caso per il futuro di distinguere i due momenti, la conta interna al partito e quella tra i partiti della coalizione, prevedendo o due distinte votazioni, o almeno un doppio turno dove si affrontino in ballottaggio i due più votati. Questo, per dirla con le parole dell'amico Sergio Salsedo, "...permetterebbe forse di rendere esplicite e trasparenti le rivalità interne al partito, e confluire con un processo democratico sul "candidato unico del PD", che andrebbe poi a misurarsi con eventuali altri candidati di coalizione. Nelle primarie di coalizione poi sarebbe del tutto naturale che il partito appoggiasse il proprio candidato, ovviamente impegnandosi a sostenere lealmente un eventuale diverso vincitore".

Le primarie di coalizione producono poi un ulteriore "effetto boomerang", per spiegare il quale chiedo aiuto all'amico Luca Foresti, che ha scritto: "Il PD interpreta le primarie di coalizione come partita in cui il PD deve scegliere un proprio candidato e questo viene letto come scelta dall'alto. A questo punto una parte di iscritti ed elettori si sentiranno legati alle indicazioni del proprio Partito, mentre un'altra parte no e voterà tutto ciò che mette in crisi la dirigenza PD. Il candidato prescelto da una parte ottiene un aiuto materiale dalla macchina organizzativa, dall'altra viene bollato come candidato di una dirigenza senza autorevolezza: quale meccanismo sia più forte dipende dai casi, dalla forza del PD, dall'autorevolezza della dirigenza locale". Esattamente.

Concludendo, l'impressione di queste settimane è stata, che nel partito in pochi volessero davvero primarie competitive, preferendo primarie rassicuranti, concepite come percorso di investitura popolare di un candidato individuato dal gruppo dirigente, piuttosto che un confronto tra persone e idee tra loro alternative. E invece, come ha scritto Arturo Parisi, "le primarie vere sono per definizione senza rete, aperte non solo come concorrenti ai nastri di partenza, ma anche come risultato. Dividere è lo scopo di qualsiasi confronto elettorale. Quindi indire le primarie e operare nel contempo perché esca il vincitore atteso è un imbroglio".

Parisi ha ragione soprattutto nel quadro di primarie di partito. Quando diventano di coalizione, una certa insofferenza da parte di iscritti e militanti dei circoli a mettersi a disposizione di tutti i candidati, che siano del loro partito, di altri partiti o di nessun partito (civici), è naturale, e va capita. L'idea di un partito-arbitro, che stabilisce le regole ma non entra nella partita, è obiettivamente castrante per chi nella base ha scelto di dedicare soldi, tempo e passione proprio a quel partito, che al momento della gara gli chiede di stare fermo e zitto oppure di offrire il suo servizio a tutti i contendenti in campo. In questo senso la richiesta di neutralità dei vertici rispetto ai candidati non va estesa troppo (qualcuno voleva che anche i segretari di circolo non potessero prendere posizione: mi sembra troppo!), perché un militante che paga una tessera, tiene aperto un circolo, si mobilita per campagne, manifestazioni, porta a porta, non può essere imbavagliato e costretto ad apparecchiare la tavola perché a mangiare siano altri, che non hanno condiviso nessuna delle sue fatiche. Va bene volere primarie aperte, senza figli e figliastri, ma occorre anche rispetto per la sensibilità e il lavoro dei volontari della nostra base.

 

4. I CANDIDATI IN CAMPO E LA MIA SCELTA.

Conosco da anni i tre candidati, ritengo che siano tutte persone pulite, oneste e appassionate, e ritengo che tutti, per ragioni diverse, da sindaci potrebbero rappresentare un elemento di forte discontinuità con il passato. Questo mi fa pensare che, comunque vada, non andrà male.

Le differenze però sono molte, sia come personalità, sia come esperienze e competenze, sia come oggettiva possibilità di fronteggiare un candidato di centrodestra. Vediamole (in ordine alfabetico).

Amelia Frascaroli.


Ci conosciamo da oltre 20 anni, abbiamo molte radici in comune (Caritas, cattolici di sinistra, ecc.) Ha avuto un grande coraggio a scendere in campo, prima e contro Cevenini. Insieme a Benedetto Zacchiroli, porta una grande fetta del merito di aver salvato le primarie a Bologna (l'altra ce l'ha chi come noi ha combattuto nel partito per lo stesso scopo). E' sicuramente una persona valida, forte ed essenziale, ed ha conoscenza profonda del mondo della povertà e dei servizi alla persona.

Vedo tuttavia in lei 3 limiti: l'inesperienza amministrativa, un rapporto troppo ingeneroso con il PD, e un abbraccio eccessivo al partito di Vendola e ad alcuni luoghi comuni della sinistra della spesa pubblica.

Sul primo punto, l'impressione è che lei si sia candidata sapendo di perdere il confronto con Cevenini, ma volendo tenere alta la bandiera degli ultimi ed alcuni temi sociali su cui il candidato favorito non appariva particolarmente ferrato. Il cambio di scenario le consegna un'opportunità reale di vittoria, che forse le starebbe un po' larga, avendo come unica esperienza amministrativa 7 mesi da consigliera comunale.

Sul secondo aspetto, mi sono dispiaciute (e glielo ho detto personalmente) diverse sue uscite un po' sprezzanti su quel PD, senza il quale lei non sarebbe entrata in consiglio comunale (600 voti sono tanti, ma fuori da una lista di partito non farebbero eleggere nessuno) né oggi sarebbe candidata alle primarie (dato che è il PD l'unico partito a organizzarle e pagarle, in senso politico ed economico). Frasi come "ho repulsione per le tessere. Mi sembra che mi venga chiesto di consegnare il mio pensiero e la mia coscienza a qualcuno" (intervista al Corriere di Bologna, 25 novembre), ripetute e puntigliose prese di distanza rispetto alle vicende del PD bolognese ("sono civica, non sono mai stata iscritta") fino all'irrisione per cui "se vinco io il PD va dall'analista" mi sono sembrate fuori luogo, data la sua posizione.

Sul terzo aspetto, mi aspettavo che, coerentemente con il vantato profilo civico, Amelia non entrasse nella disputa nazionale sulla leadership della sinistra. E invece il 18 novembre, intervistata dal Carlino, dice: Chi voterei alle primarie del centrosinistra tra Vendola e Bersani? Vendola, assolutamente. Lo dico con affetto, ma è l'unico che sta lavorando a ricollegare il mondo civile con la classe politica. Ce lo dobbiamo dire, in questo momento il Pd non è capace di farlo.

E la settimana dopo consacra la sua relazione con Vendola con un comizio ed un abbraccio ad uso dei fotografi. Un abbraccio iniziato già palesando ostilità verso i finanziamenti alle scuole private (dove però un bambino risulta costare il 45% in meno rispetto alle scuole pubbliche), proseguito con dichiarazioni di "presa in carico" da parte dell'ente pubblico di varie situazioni (il Bologna in crisi, i bambini gratis sull'autobus), senza però indicare dove trovare le risorse, e culminata con il discorso del 25 novembre a fianco di Vendola, pieno di suggestioni emotive e concluso con la promessa ai giovani: "votatemi e la vostra vita sarà meno tosta".

Ne ricavo l'immagine di Amelia paladina di una "sinistra della spesa", mai "dei ricavi e dei risparmi", un po' sessantottina, un po' narrativa, un po' retorica. Una sinistra con molti diritti e pochi doveri, che punta alle emozioni e cita come esemplare il comune di Nardò (commissariato per debiti), che si fa guidare da quel Vendola molto bravo a emozionare ma meno a vigilare, dato che la sua giunta precedente si dimise in massa (estate 2009) a seguito delle indagini su intrecci tra politica e affari nella fornitura di prodotti e servizi sanitari (il suo vice fu poi arrestato), senza che lui se ne accorgesse. Lo stesso presidente della Regione che ha bloccato i pagamenti ai fornitori, tanto che negozi e ristoranti pare rifiutino i buoni pasto ai dipendenti regionali. Che sul sito regionale segna in rosso la voce "Trasparenza" ma non pubblica dati essenziali come il numero dei dipendenti regionali né quello delle società controllate dalla regione (da altre fonti imparo però che una di queste, l'Acquedotto Pugliese, ha 1.600 addetti, vertici pagati 250 mila euro all'anno, e il 36% di perdite di acqua), e che chiude la pagina "trasparenza" con questa frase: "I testi pubblicati non hanno carattere di ufficialità". Insomma tanto fumo, poco arrosto.

Virginio Merola


Merola è stato presentato come un uomo di apparato, il che è vero storicamente (10 anni da presidente del quartiere Savena, 5 anni da assessore all'Urbanistica nella giunta Cofferati, oggi presidente del Consiglio Provinciale), ma non rende affatto la sua posizione attuale rispetto al partito (le convulsioni del gruppo dirigente seguite alla sua candidatura ne sono la prova).

Si candida senza chiedere permesso, con le conseguenze che abbiamo già richiamato, e lo fa per la seconda volta (la prima fu due anni fa contro Delbono, dopo che gli allarmi sulle disinvolture del candidato ufficiale erano rimasti inascoltati).

Resiste alle pressanti richieste di ritiro, avanzate da chi spinge per un candidato unitario calato dall'alto o tirato fuori dal cilindro.

Dopo il ritiro di De Maria, dice un no pubblico e rumoroso alla sua pretesa di co-gestire la campagna elettorale prima e l'eventuale vittoria dopo. "Fai ancora in tempo a candidarti, non tratto sui posti", risponde Merola.

Ha una solida esperienza amministrativa (da assessore all'Urbanistica fece alcune scelte coraggiose, che mi sembrarono apprezzabili: allora ero presidente della Commissione Urbanistica della Provincia, e seguivo abbastanza queste cose), e una buona conoscenza della macchina comunale, che dovrebbe permettergli di sapere dove mettere le mani, di non farsi ingannare da consiglieri interessati, e di mantenere il controllo diretto del timone.

Per questo mix di indipendenza mostrata sul campo, e di esperienza e competenza, ritengo che sia il candidato migliore per vincere le elezioni (le primarie infatti servono come "eliminatorie" a scegliere chi andrà a giocare la finale, che è la partita che conta), e soprattutto per governare una città che ha bisogno di una mano solida per prendere decisioni rinviate da troppo tempo.

Benedetto Zacchiroli.

Il più giovane tra i 3, estroso e geniale nella comunicazione, con la maggiore esperienza internazionale.

Lo conosco da anni, è una persona con molti talenti, e potrebbe dare un contributo essenziale al rilancio di Bologna a livello internazionale, nei circuiti turistici, come luogo di eventi attrattivi, ecc. Benedetto ha il carattere e la preparazione per curare progetti di questo genere, e portarli al successo.

Come sindaco però lo vedo un po' acerbo: come per Amelia, un po' di esperienza amministrativa non guasterebbe.

Ma la sua corsa è utile sia per il fatto che sta coinvolgendo persone (soprattutto giovani) altrimenti ai margini della politica, sia per i temi proposti (Bologna in relazione con il resto del mondo).

Di tutti e tre i candidati avremo modo, nelle settimane che ci separano dal 23 gennaio, di valutare meglio personalità, idee e proposte. Per ora chiudo qui. Buonanotte a tutti.

Andrea De Pasquale
www.andreadepasquale.it

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