Andrea De Pasquale

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Effetto Renzi a Roma e a Bologna; la causa della paralisi infrastrutturale bolognese; l'ospedale S. Orsola, che si espande dismettendo edifici. Bologna e dintorni, marzo-aprile 2014

Bologna, 8 maggio 2014

Cari amici,

eccomi alla nota periodica sulla politica bolognese. Trovate le precedenti sul mio sito. Rammento che per non ricevere questi messaggi è sufficiente chiedermi la cancellazione da questa lista, mentre se avete amici interessati segnalatemi la loro e-mail. 4 gli argomenti di questa edizione:

1. "EFFETTO RENZI" SUL PIANO NAZIONALE: L'EMERSIONE DEI POTERI ULTRASTATALI

2. "EFFETTO RENZI" SUL PIANO LOCALE: CONVERSIONI E GATTOPARDI

3. PROGETTI FERMI A BOLOGNA: CAUSE BUROCRATICHE O POLITICHE?

4. L'OSSIMORO DELL'OSPEDALE S.ORSOLA, OVVERO "INGRANDIRSI DISMETTENDO".

(Vedi anche facebook.com/andrea.depasquale e twitter.com/depa65)

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1. "EFFETTO RENZI" SUL PIANO NAZIONALE: L'EMERSIONE DEI POTERI ULTRASTATALI

La spinta riformista di Renzi sembra avere un impatto molto diverso a Roma e a Bologna. L'impressione è che sul piano nazionale la sua azione abbia l'effetto di far emergere resistenze esplicite, e contribuisca a svelare il fronte della conservazione (vario e trasversale) in modo leggibile: pensate solo al tema del superamento del bicameralismo perfetto, meraviglia italiana che rallenta i tempi e accresce i costi della politica, e che oggi annovera tanti nuovi difensori: da Forza Italia a Grillo, dalla Lega a frange del PD, con il supporto dei soliti accademici perennemente mobilitati contro il rischio di un regime autoritario.

E pensiamo all'alzata di scudi che ha percorso i piani alti dell'intera penisola contro il tetto (di 240.000 Euro all'anno, ovvero 20.000 al mese) imposto ai dirigenti pubblici. Ecco perché, come scrive Galli della Loggia ("Il conflitto sotterraneo", splendido editoriale sul Corriere del 21 marzo) Renzi, a differenza di Berlusconi, divide il paese in modo diverso rispetto alle frontiere politiche tradizionali. L'Italia anti renziana è dunque fatta di "pezzi significativi, forse maggioritari, della Confindustria, dell'alta burocrazia e dell'economia pubblica, del sottomondo politico in particolare romano, della Rai, molti importanti commentatori e giornalisti... numerosi quadri medio alti dello stesso partito di Renzi e della CGIL".

"Renzi - continua Della Loggia - minaccia di squarciare il velo di menzogna che negli ultimi 30 anni la politica ha provveduto a stendere sulla nostra realtà sociale (per cui c'erano una destra e una sinistra divise da fondamentali differenze). Dietro la divisione proclamata e rappresentata dalla politica, è andata solidificandosi una realtà compatta del potere sociale italiano, all'insegna della protezione degli interessi costituiti, della moltiplicazione dei contributi finanziari, della creazione continua di privilegi piccoli e grandi, della disseminazione di leggine e commi ad hoc, della nascita di enti, agenzie, authority, società di ogni tipo, all'insegna, comunque e per mille canali, dell'uso disinvolto e massiccio della spesa pubblica... in tal modo favorendo lo sviluppo di uno strato di decine di migliaia di occupanti (quasi sempre gli stessi) a rotazione di gabinetti, uffici legislativi, uffici studi, presidente e consigli di amministrazione, e il sorgere di un soffocante intreccio di relazioni, amicizie, legami personali".

"Finora - conclude - la radicale divergenza di interessi tra l'Italia "protetta" e l'Italia "non protetta", questo reale, autentico conflitto di fondo, non è mai riuscito ad avere alcuna vera rappresentazione politica, a dare vita a un reale conflitto tra le parti politiche ufficiali. Renzi minaccia esattamente di rovesciare questa tendenza, aprendo importanti terreni di scontro tra queste due Italie".

Personalmente mi ritrovo pienamente in questa analisi, che mi pare coincida con quella che fa Sabino Cassese, nel suo ultimo libro "Governare gli italiani", laddove parla di una terza crisi dello stato italiano, dovuta alla formazione di "poteri pubblici ultrastatali", impegnati appunto a utilizzare la politica per conservare sé stessi, a dispetto di tutto il resto: un'economia strangolata dal prelievo fiscale, un sistema pubblico che premia l'immobilismo e punisce iniziativa e responsabilità, costi insostenibili per le imprese e il lavoro, con aziende che emigrano o chiudono, e conseguente perdita di occupazione.

Sono sempre più convinto che l'attuale linea del Piave, per questa nostra Italia, stia proprio qui. Per questo credo doveroso sostenere Renzi, anche nelle sue intemperanze e semplificazioni eccessive. Perché di fatto interpreta il conflitto vero, finora negato, tra i Sommersi (esposti al mercato e alla crisi) e i Salvati (garantiti e protetti a vario titolo).

 

2. "EFFETTO RENZI" SUL PIANO LOCALE: CONVERSIONI E GATTOPARDI

Sul piano locale invece accade un fenomeno totalmente diverso, che ha visto salire sul carro renziano figure che fino a poche settimane prima erano in prima linea a rovesciare sul sindaco di Firenze le peggiori accuse di golpista, infiltrato, ecc.

Se da un lato il fatto di diventare maggioranza richiede ai sostenitori di Renzi l'abbandono del mito della purezza minoritaria, e l'accoglienza festosa delle "conversioni", nella volontà di superare la distinzione tra simpatizzanti della prima (primarie 2012, vittoria di Bersani) e della seconda ora (primarie 2013, vittoria di Renzi), sarebbe ingenuo negare alcuni fatti.

Il primo è che l'iniezione repentina di "renziani della seconda ora" fortemente radicati nell'apparato del partito (se non altro per mancanza di un mestiere indipendente dalla politica) sia servita innanzitutto a togliere la bandiera di Renzi dalle mani della minoranza sconfitta nel 2012, storicamente avversa a quell'apparato, e pericolosa per "la Ditta" (espressione utilizzata anche da Bersani che ben raffigura la convergenza di interessi che tiene insieme incarichi di partito, cariche amministrative ed un sottobosco di economia sostanzialmente a carico di queste).

Il secondo fatto è che, a valle di queste tempestive ed accurate iniezioni, l'area Renzi è diventata oggetto, a Bologna, di un attento lavoro di selezione tra figure da promuovere (perché "affidabili" per la Ditta) e figure da escludere (perché indipendenti, incontrollabili, refrattarie al richiamo della Ditta).

Le primarie per i candidati a sindaco, tenute tra fine febbraio e primi di marzo in 15 comuni della provincia di Bologna, sono state un test eloquente in proposito.

Perché, mentre non si ha notizia di esponenti cuperliani che abbiano sostenuto, in base a valutazioni esclusivamente locali, candidati renziani, abbiamo visto diversi esponenti dell'area Renzi, anche molto visibili, fare campagna per i candidati cuperliani, oppure dare un sostegno ai candidati renziani al di sotto del limite dell'udibile. Facciamo qualche esempio.

Ad Argelato il candidato renziano (e sindaco uscente) Andrea Tolomelli perde le primarie con 929 voti (48,16%) contro i 1000 (51,84%) della vincitrice Claudia Muzic, aiutata dal pieno dispiegamento del partito a livello locale e (quantomeno) dal silenzio distante dei neo-renziani, molto attivi laddove (come per esempio a San Lazzaro) l'area Renzi ha deciso di convergere su un candidato non renziano. Analogamente va a S. Pietro in Casale, dove Andrea Pinardi, renziano storico, perde con 697 voti (48,30%) contro Claudio Pezzoli, 746 voti (51,70%). A Castelmaggiore invece il gioco è addirittura più scoperto: alcuni renziani della seconda ora, particolarmente vicini a Donini, sostengono apertamente la candidata (cuperliana) Belinda Gottardi, che vince con 1187 voti (51,36%) sul renziano della prima ora Francesco Baldacci (1124 voti, 48,64%).

Unica (apparente) eccezione, Castenaso, dove l'uscente Stefano Sermenghi, renziano "doc", vince con il 75% dei consensi. Ma ecco che arriva oggi (ieri per chi legge) la notizia che il PD di Castenaso ha diramato un comunicato pubblico di sfiducia al candidato PD vincitore delle primarie (a 17 giorni dalle elezioni!) perché non avrebbe rispettato le indicazioni del partito nella formazione della lista dei candidati al Consiglio Comunale (pensata per tenerlo ostaggio, da sindaco di una maggioranza consiliare a lui ostile nel partito).

Intendiamoci: le ragioni addotte dai vari renziani (della seconda ora) impegnati a far campagna contro il candidato renziano (della prima) sono tutte nobili e ineccepibili: libertà di coscienza, radicamento sul territorio, rapporti personali, eccetera. Stranamente, nessuna di queste ragioni ha però funzionato in senso opposto: in tutto il territorio provinciale non si è registrato un solo caso di dirigente cuperliano che abbia liberamente scelto di sostenere un candidato di area Renzi per questioni di merito e di capacità personali. Una statistica davvero imprevedibile!

Di conseguenza, pur sapendo che in ogni comune si intrecciano situazioni particolari e non facilmente generalizzabili, personalmente mi sono fatto un'idea del "filo rosso" che unisce le diverse vicende. E la chiave di lettura che mi pare emergere è ancora la vicinanza alla famosa Ditta. Che su alcuni temi, come quelli urbanistici e infrastrutturali, ha bisogno di tenersi le mani libere, di non impiccarsi a promesse e prese di posizione nette, per poter gestire vari scenari e diverse opportunità. Prendiamo l'esempio del Passante autostradale: sarà proprio un caso che tutti i candidati PD (incidentalmente renziani) che si erano chiaramente espressi per un ripensamento sul progetto, siano stati sconfitti di misura, spesso con il contributo, attivo e passivo, di neo-renziani di apparato? E sarà sempre un caso che tra gli sconfitti prevalgano le figure professionalmente (ed economicamente) indipendenti, mentre tra i vincitori spicchino i profili cresciuti fin dalla tenera età a pane e politica?

Certo, questo non giustifica i casi (due nel nostro territorio) di candidati sconfitti alle primarie che si candidano contro il vincitore, rompendo il patto di lealtà che è il presupposto delle primarie stesse (e che Renzi per primo ha saputo rispettare nel 2012), e rinunciando al lavoro (difficile, spesso ingrato, ma irrinunciabile) di portare il cambiamento dentro al partito. Questa scelta, emotivamente comprensibile ma politicamene ingiustificabile, lascia più solo chi resta nel PD (pur senza condividerne molte cose) per cambiarlo, ed espone i fuoriusciti al rischio di irrilevanza (la spinta innovativa delle liste civiche comunali per esperienza si esaurisce in fretta e comunque non valica il confine del comune).

Ma in conclusione, mi pare evidente che l'operazione in corso a Bologna, da parte di una dirigenza già bersaniana poi cuperliana, punti a promuovere, nei posti che contano, figure di "renziani convertiti" ma di fatto fedeli e conservativi rispetto all'apparato, allo scopo di esibire un cambiamento di etichetta ma insiem a coprire una sostanziale continuità nelle scelte amministrative e nella selezione del personale politico. Una operazione essenzialmente gattopardesca, che per quanto mi è possibile sto cercando (non da solo, fortunatamente) di decifrare e contrastare.

 

3. PROGETTI FERMI A BOLOGNA: CAUSE BUROCRATICHE O POLITICHE?

Tra marzo e aprile molti autorevoli dirigenti e amministratori si sono improvvisamente accorti dei ritardi accumulati a Bologna su vari progetti, come il Tecnopolo o il nuovo Polo Oncologico del Sant'Orsola. Dal sindaco Merola alla vicepresidente della regione Saliera, è un rincorrersi di dichiarazioni indignate ed appelli accorati a "fare presto". Il segretario del PD, Raffaele Donini, fa un passo oltre e, in una intervista al Corriere di Bologna (11 marzo), offre la sua ricetta contro il male che affligge la città: "Per cambiare volto a Bologna serve una corsia di emergenza". Ed aggiunge che si aspetta molto dal governo Renzi in tema di rivoluzione della macchina burocratica.

Ora, se in molti campi della vita economica e sociale è vero che le lentezze burocratiche e le complicazioni procedurali sono molto dannose, quando parliamo di grandi opere e infrastrutture bolognesi, ovvero della nostra storia recente, l'analisi va un po' corretta. Perché in realtà è stato proprio il ricorso ripetuto ed ossessivo a continue "corsie di emergenza" che ci ha portato alla paralisi infrastrutturale attuale. Dalla Metropolitana Automatica Bolognese di Guazzaloca alla MetroTramvia di Cofferati, dal Civis figlio di nessuno al People Mover di Prodi, Delbono e oggi Merola, tutte queste opere sono state frettolosamente progettate, sbrigativamente discusse, precipitosamente approvate ("per non perdere i finanziamenti", oh yes!), con i risultati che oggi abbiamo sotto gli occhi.

Perché quando si parla di urbanistica, di sistemi di trasporto, infrastrutture che sono organi vitali di una città, le analisi approfondite e laiche, gli studi scientificamente fondati e non politicamente guidati, la valutazione comparativa con quanto fatto in altri territori, la partecipazione autentica ed allargata dei cittadini non sono "burocrazia", ma sostanza. Non sono "ostacoli e pastoie", ma "strumenti per la fattibilità e sostenibilità".

Prendiamo l'esempio del Tecnopolo. Il suo problema non mi pare affatto burocratico, ma di progetto industriale, che manca totalmente. Vi è chiarissima la volontà (il bisogno?) della "politica locale" di riallocare personale e di riutilizzare un contenitore dismesso trasferendovi CNR ed ENEA. Sul lato dell'offerta, quindi, il "prodotto" sarebbe pronto. Ma sul lato della domanda, ovvero delle imprese che dovrebbero avvalersi dei servizi di questo Tecnopolo, regna il buio più fitto. Eppure, quando funzionano, progetti come questo partono proprio dalla domanda, ovvero dalle esigenze industriali e di ricerca applicata del tessuto produttivo. A Bologna invece, su questo aspetto, mi pare che siamo a zero, e soprattutto che la classe dirigente (amministratori in carica e partito di governo) pensi ancora che sia possibile concepire progetti simili a prescindere dalla domanda.

Sull'ospedale Sant'Orsola Malpighi poi siamo al paradosso. Per questo il tema merita un capitolo a parte (vedi sotto).

 

4. L'OSSIMORO DELL'OSPEDALE S.ORSOLA, OVVERO "INGRANDIRSI DISMETTENDO".

A dare l'innesco allo "scandalo burocratico" che ha tenuto banco sui giornali nelle settimane scorse è stato proprio il progetto di "Polo Oncologico" finanziato dalla Fondazione Seragnoli che dovrebbe sorgere nell'area del S. Orsola ma che risulta fermo dal 2009. Il piano prevede la demolizione e poi la ricostruzione, con volumetrie maggiorate, del padiglione numero 7 "Viola". Il nuovo edificio, più grande dell'attuale, dovrebbe ospitare i ricoveri "ad alta intensità di cura" e l'attività di diagnostica per immagini. Il problema sembra essere legato ad uno studio sul rumore, e alla necessità di una variante al Piano Strutturale Comunale dato che i volumi edificatori della nuova struttura superano i limiti urbanistici stabiliti per la zona del s. Orsola. Limiti già ampiamente sforati, anche di recente, come vedremo tra poco.

Nel frattempo il direttore sanitario del S. Orsola, Sergio Venturi (cognome che a Bologna ha incrociato spesso l'urbanistica, con esiti controversi) dichiara al Carlino il 28 marzo la volontà di "Alienare il padiglione Palagi insieme ad alcune attività che non rientrano nel perimetro storico del Sant'Orsola. La struttura si potrebbe convertire in maniera redditizia". Ed aggiunge: "Non possiamo aspettare dieci anni, dobbiamo decidere a breve, in pochi mesi, cosa fare". Anche qui, la fretta del fare. Contro la burocrazia oppure contro la logica politica e la memoria storica?

Infatti nel 2002, quando ero coordinatore della commissione urbanistica nel quartiere San Vitale, il quadro raccontato era totalmente opposto: il S. Orsola doveva espandersi, aveva bisogno di nuovi spazi, di nuove cliniche, tanto che fu deciso di costruirne tre nuove, a costo di sfondare ogni limite ed ogni vincolo in termini di indice di utilizzazione territoriale (che secondo la pianificazione vigente dovrebbe essere, per le aree ospedaliere, pari allo 0,30 massimo, mentre al S. Orsola era già di 0,90 prima della costruzione dei 3 nuovi poli, che hanno aggiunto 24.000 mq di edificato, portando la superficie utile a 187.000 mq su 181.000 di superficie territoriale, quindi oltre l'1,00 di densità urbanistica).

Ora invece lo stesso ospedale, mentre inaugura le nuove cliniche e chiede ulteriore espansione edilizia, dichiara di voler vendere sicuramente il Padiglione Palagi, poi addirittura anche altro (vedi sotto). Cosa è cambiato? Perché fino a 3 anni fa (ed ancora oggi per il Polo Oncologico) il mantra era "l'ospedale ha bisogno di nuovi edifici", tanto che furono per questo firmati accordi e concessi permessi di costruire altrimenti inconcepibili dal punto di vista urbanistico, ed ora invece lo stesso ospedale può tranquillamente vendere una fetta consistente del proprio patrimonio edificato, senza che nessun amministratore, nessun dirigente politico, abbia nulla da obiettare?

Un indizio possibile viene dal Corriere di Bologna dello scorso 13 novembre, che titolava "Il Padiglione Palagi fa gola alla famiglia delle cliniche". Si tratta della famiglia Orta, ben nota nel mondo della sanità bolognese, a capo di strutture private accreditate sia in campo sanitario che socio-assistenziale dal 2009 confluite nel consorzio ospedaliero Colibrì: ai Colli, Santa Viola, Villa Bellombra, Villa Ranuzzi, Villa Serena.

Una curiosità: il Padiglione Palagi (quello che ora Venturi vuol vendere) misura complessivamente 25.000 mq. Le 3 nuove cliniche figlie dell'accordo del 2002, e appena ultimate, misurano 24.000 mq. Quindi, appena si rendono disponibili i 24.000 mq delle nuove cliniche, parte la dismissione dei 25.000 mq del padiglione Palagi. L'obiettivo dell'operazione era espandere l'ospedale, oppure addensare oltre il limite il costruito dentro il S. Orsola per liberare il Palagi, venderlo e farne cassa? Riassumendo: abbiamo dato l'ok ad una operazione sanitaria o speculativa?

Ma la dismissione sembra avere confini più vasti: scrive infatti il Carlino il 14 marzo scorso: "Il più importante ospedale della regione perderà la parte Malpighi e si concentrerà su quella Sant'Orsola. Nel giro di pochi anni potrebbero infatti venire man mano abbandonati e poi venduti il padiglione 1 (Pelagio Palagi), il padiglione 2 (nuovo Malpighi, quello delle Medicine interne) e il padiglione 3, che sarebbe il nucleo storico della direzione, con i chiostri e il Portico dei Mendicanti. E' solo uno dei dettagli del bilancio economico preventivo 2014 dell'azienda ospedaliero-universitaria".Gli fa eco il Corriere: "Per ammodernarsi il Sant'Orsola potrebbe alienare l'intera area Malpighi: Non solo il padiglione 1 Palagi, ma anche il 2 Albertoni (oltre 300 posti letto) e il 3, che ospita la direzione medica e altri uffici, potrebbero essere oggetto di dismissione. La previsione è inserita nel Piano di investimenti 2014-2016".

Da qui il mio consiglio al segretario PD, e agli amici amministratori facili all'indignazione contro la burocrazia: in linea di principio possiamo anche concordare sulla vendita di pezzi di ospedale, se questo risponde ad un disegno trasparente e coerente negli anni. Ma qui invece vedo opportunismo e opacità. E questi sono problemi della politica, non della burocrazia.

Un saluto a tutti, e alla prossima.

Andrea De Pasquale
www.andreadepasquale.it
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