Andrea De Pasquale

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La relazione di p. Paolo Garuti

(trascritta artigianalmente da una registrazione, peraltro incompleta)

Io confesso innanzitutto la mia impreparazione davanti a questi temi, non sono specialista di questioni politiche, né di questioni italiane perché a lungo ho vissuto all’estero e quindi tendo a vedere con una certa naturale distanza le cose italiane.

Tocca a me parlare per primo, e per questo cercherò di buttare qualche chiarimento dal punto di vista della terminologia. Il Titolo di questa serata parla di scelte politiche. Che sono cose diverse dalla politica. Dovremo quindi ragionare su 2 piani, uno che cerco di descrivere con un triangolo che ha ai vertici la fede, la ragione e la politica, un altro che è quello delle scelte secondo fede, secondo ragione e secondo la politica, che è un piano distinto da quello della dimensione su cui ci muoviamo.

Questo si giustifica perché il termine politica, che noi usiamo come astratto femminile singolare nasce neutro plurale, “le cose che riguardano la città”. Noi lo usiamo come fosse un livello più elevato, perché c’è stato un lungo cammino di riflessione su come costruire la città.

Il primo triangolo: fede, ragione, politica.

Facendo il primo triangolo, quello più teorico, io credo che si possa mettersi in ogni vertice e da lì guardare gli altri due e porsi delle domande. Può la ragione fare a meno della politica? In certi campi sì. Può la ragione fare a meno della fede? In certi campi deve: penso alla ricerca scientifica, io insegno Nuovo Testamento, e ai miei studenti comincio col dire “dimenticate le problematiche di fede, qui si fa della filologia, che è una scienza a modo suo, ma è una scienza”. Non è che io posso discutere in base a dei dogmi di fede se l’anno della distruzione di Gerusalemme è il 70 o il 72. E’ il 70 e punto. Un aoristo passivo è un aoristo passivo, non è qualcosa d’altro.
Nello stesso tempo può la ragione fare a meno della politica e della fede, in termini non solo estensivi a tutti i campi a cui si applica la ragione, ma soprattutto per farsi dare dei limiti? La ragione può essere una patologia, anche sociale, lo è stata in quello che noi chiamiamo razionalismo. La convivenza civile e quel livello che chiamiamo di fede perché attiene a quella capacità che abbiamo di credere a delle cose senza avere la possibilità di verificarle, non può aiutare la ragione a riconoscere i suoi limiti? Una ragione che voglia essere ragionevole deve riconoscere i suoi limiti, sennò diventa mostruosa.

Mettiamoci adesso nel vertice del triangolo che chiamiamo fede, presa non nel senso religioso del fenomeno, ma nella capacità appunto di credere delle cose.

Può la fede fare a meno della ragione? In termini di fede naturale, quella che guida il 98% delle nostre scelte (quella in cui facciamo fede alle statistiche, alle previsioni meteo), non si può fare a meno della ragione: bisogna che ci siano dei motivi di credibilità razionale, come minimo ci devono essere almeno una non contraddizione. Se applicassimo questo principio più spesso anche nelle polemiche politiche o religiose sarebbe bene. Il controllo della ragione è indispensabile per sapere se io posso credere certe cose. Sennò entro in circuiti emotivi o di dipendenza mentale da cui non riesco più ad uscire se non a costi molto alti. E’ famosa la frase che il silenzio della ragione genera mostri. Credere ad una persona, credere perché si ha paura, se non ha un briciolo di controllo che sia razionale e condivisibile sappiamo tutti dove può portare.

Per quello che riguarda invece le cosiddette verità di fede (parlo ad esempio della Trinità…), quello che almeno la meditazione cattolica ha sempre detto è che anche se apparentemente contraddittorie devono essere convenienti, cioè “che vanno bene insieme” (convenire vuol dire questo). Che Trinità significhi uno e tre è contraddittorio per la ragione umana, ma è conveniente per dire che Dio è società, non è solitudine, che comunque non è qualcosa di cui puoi impossessarti. Se l’uomo è fatto a immagine di Dio allora questa molteplicità dell’essere di Dio ha qualcosa da dire anche alla molteplicità dell’essere uomo. Nulla di questo è scientificamente dimostrabile, ma tutto è conveniente alla ragione, ovvero la ragione non ci trova qualcosa di sconcertante e negatorio, lo trova semplicemente al di là dei propri limiti. L’arte si basa su questo, trova delle “convenienze” che non sono ragioni, quel quadro non è una fotografia ma è bello.

Ma soprattutto la fede ha bisogno del controllo della ragione per distinguere i diversi piani in cui si pone e fino a che punto, proprio sullo specchio della fede, non si appoggino le scorie dell’idolatria, vale a dire della fede contro l’essere umano. E pertanto deve potersi controllare. Nessuno che abbia veramente fede ha paura della ragione. Se ne ha paura, vuol dire che è fuori dall’armonia della fede.

Può la fede fare a meno della politica? Questo è un grosso problema perché la fede ha una doppia dimensione, una individuale e una sociale: difficilmente una fede non crea comunità. Anche la fede più individualista non si risolve solo nel monaco che sale in cima alla montagna ma crea una dimensione comunitaria. Ora nell’esperienza di cui noi siamo eredi, che è quella mediterranea, non solo italiana, questo rapporto si identifica sostanzialmente con diversi modelli, che si ritrovano fino dall’antichità ai giorni nostri, a seconda di qual è il rapporto che si instaura con il mondo.

Tre modelli di rapporto tra fede e mondo

Uno di questi modelli di rapporto fede-politica è il modello profetico: il profeta è un uomo politico, è l’uomo del “se”: se fai così avrai questo risultato, se non fai così non lo avrai. Il profeta è un deliberativo, spinge la persona o il gruppo a delle scelte condizionate. Il profeta di solito è coerente con il suo ambiente, non né uomo di particolare rottura, serve a confermare le scelte che quell’ambiente, o quel gruppo umano, ha già fatto. E’ il più delle volte un rafforzatore dell’ideologia.

Un altro modello, tipico di gruppi più ristretti, più settari, è quello apocalittico. Non crede che facendo una cosa se ne consegua un’altra nell’immediato, crede piuttosto che si debba andare al di là dell’oggi, in un costante richiamo al di fuori della storia. L’apocalittico ha un rapporto di tipo distruttivo con la realtà. Può diventare il kamikaze di cui Andrea vuole che non parli... E’ un tale affermatore dell’alterità del suo progetto rispetto al mondo dominante (di solito nascono in periodi di cultura unica e dominante), che non può altro che affermare la propria verità negando il mondo e, non potendo distruggere il mondo, finisce spesso per distruggere sé.

Il terzo modello è quello dello gnostico, ovvero colui che non crede nemmeno che si possa sognare un mondo migliore di quello in cui viviamo. Il profeta dice possiamo migliorarlo, l’apocalittico dice dobbiamo superarlo e andare al di là, lo gnostico dice c’è solo la tua individualità spirituale che va al di là dei limiti del tempo e dello spazio, perché questi limiti sono un brutto scherzo che ti è stato fatto. Lo gnostico era, ai tempi suoi, un New Age: cerca la risposta dentro di te.
Nel caso del rapporto dell’uomo di fede con la politica, evidentemente queste 3 dimensioni cambiano enormemente. Guardando a come stanno andando le cose nella chiesa italiana, vedo una grossa sofferenza tra una dimensione profetica (è ancora possibile correggere il tiro), e una dimensione apocalittica (noi cristiani saremo perseguitati come gli apostoli, prepariamoci ad essere una minoranza). Oppure ci sono fughe nell’individualismo spiritualista di tipo appunto gnostico.

Veniamo alla politica, di cui non parlo da esperto. Può fare a meno della ragione? No, non c’è nemmeno bisogno di dimostrarlo. Può fare a meno della fede? Su questo voglio soffermarmi un attimo.

Ci sono almeno due casi in cui la politica non può fare a meno della fede. Quando la fede è una fiducia razionale: cosa intendo? Intendo che zio Aristotele, che scrisse di politica e di retorica, distingueva tra discorso legale, che ha a che fare col passato (giudica chi è colpevole e chi no), il discorso celebrativo, che ha a che fare con il presente (mi piace o non mi piace quello che sta parlando, è chiaro o no), e il discorso politico, che ha il brutto dramma che ha a che fare con il futuro, che nessuno conosce. Tanto che il buon Aristotele metteva tra i luoghi comuni utili al discorso politico anche gli oracoli (nell’antichità avevano più difficoltà a fare i sondaggi, allora avevano gli oracoli: risultati e credibilità più o meno analoghi). Perché l’oracolo ti dice come andranno le cose nel futuro.

Sia l’oracolo sia il sondaggio fanno parte della fede razionale, che significa che io carico di un valore di credibilità, di fede, qualcosa che non si è ancora prodotto: chi lo sa se facendo questa legge le cose miglioreranno? Non lo posso vedere, posso solo supporlo.

Ma c’è un altro motivo per cui la politica non può fare a meno della fede, ed è già stato detto nell’introduzione a questo incontro, è che senza una prospettiva ideale la politica è un po’ zoppa. Non sto parlando di fede religiosa, ma di fede ideale: ed è necessaria sempre per lo stesso motivo, perché la politica parla di futuro, e per il futuro devi rischiare, e se non hai una forte spinta di tipo emotivo, affettivo, difficilmente rischi. E’ facile fare politica quando sei perseguitato, è facile fare politica quando il tuo gruppo è schiacciato, perché sai che almeno da quella situazione vuoi uscire. Ma poi a costruire qualcosa, lì cominciano i pasticci. Abbiamo parlato della Costituente: sono persone che hanno saputo andare oltre l’uscita da una situazione negativa (evitare il ripetersi di quello che era successo), per costruire qualcosa di nuovo.

La città terrena e la città ideale

In altri termini – se volete che usi un termine teologico – è difficile costruire una Gerusalemme terrena se non ho una Gerusalemme celeste, che non né obbligatoriamente una Gerusalemme religiosa: è una Gerusalemme ideale, una città ideale. Qui ci si scontra tra zio Aristotele e zio Platone, che avevano due modi diversi di intendere questo rapporto con la città ideale. E a proposito della Gerusalemme terrena, diceva un amico questo inverno proprio a Gerusalemme: se la religione è l’oppio dei popoli, in questa città c’è qualcuno che l’ha tagliata molto male.

Quando una scelta politica arriva a chiederti la vita (non necessariamente nel senso che ti fai ammazzare, ma anche nel senso che ci dai tutte le tue energie, non necessariamente per andare in un qualche consiglio di municipalizzata), ci vuole questa Gerusalemme ideale. Ma a questo punto ci si chiede: la politica è ostacolata da una fede di tipo religioso? Qui dipende da come si vive questa fede religiosa. E andiamo al nodo del dibattito, che non solo è attuale ma che ahimè diventerà ancora più attuale nei prossimi anni – sono i momenti in cui dico “fermate il mondo, voglio scendere”.

Siamo abituati da una certa mentalità di tipo liberale, sostanzialmente americana, a credere che la fede in fondo è un dato unicamente individuale, almeno nei suoi contenuti espliciti. Tutti crediamo grosso modo in un Dio ma poi ciascuno ha il suo modo di crederlo, e ci si rapporta a modo suo. Quindi non esiste una reale comunicazione tra il contenuto della fede e ciò che è attingibile dalla ragione, pertanto non è discutibile con altri, non si può mettere in questione. Il dialogo tra le fedi è un fatto di tolleranza, il dialogo tra chi ha fede e chi non ha fede è un fatto al massimo di tentativo di costruire nel pratico qualche cosa assieme a partire dalle buone intenzioni. Questa è un po’ la mentalità tra cui siamo abituati. C’è invece chi insiste forse un pochino troppo sul fatto che c’è comunque una consonanza profonda tra i contenuti della fede rivelata da Dio e ciò che un uomo può capire con la sua testa, quindi è “naturale” che l’uomo di fede attraverso il suo cammino di fede e quello impegnato nella sua ricerca razionale arrivino alle stesse conclusioni: questo è un bellissimo discorso, dovrebbe essere così, ma spesso diventa un “io che ho la fede capisco cosa deve essere per te naturale”, oppure “io che seguo le vie della ragione capisco cosa deve essere per te la vera fede”, ecc...

Io li ho visto tutti e due questi casi: l’Osservatore Romano 60 anni fa titolava “le classi miste sono contro natura”, e intendiamoci dei motivi per dargli ragione li troviamo… a 6 o 7 anni può essere utile separare maschi e femmine. Ma molto più recentemente un personaggio importante, che parla in tv e che fa la psichiatra, chiedeva a me cattolico se non era il caso che la chiesa cattolica cambiasse l’atteggiamento circa le donne perché così poteva opporsi al modo con cui un’altra religione trattava le donne: cioè la religione cattolica avrebbe dovuto fare una certa cosa per contestare da un’altra religione, per accontentare questa che era laica. In base a quale principio? Di una natura umana alla quale tutti bisogna rispondere. Il Corriere della Sera, simpatico giornale, diceva che era stato un male che la chiesa di Catania avesse riammesso il cappuccio alla processione del venerdì santo perché così facendo appoggiava quelli che in altre religioni mettono il velo… e così via.

Noi oggi viviamo un ben triste momento, perché la crisi che hanno attraversato le grandi spinte ideali (marxista, cattolica, liberale) ci hanno portato a un livello basso di percezione delle nostre speranze, e allora ci diciamo: è possibile ancora fare politca in senso alto dopo aver perso le fedi? E vengo all’ultimo triangolo, quello delle scelte.

Bisogna che ciascuno sia molto chiaro su un punto: al di là di quello che scopre la ragione, percepisce la fede, delinea la politica, la scelta concreta si fa in termini concreti. Allora la ragione non può più essere individuale, deve essere una ragione condivisa. La fede non può più essere una fede individuale o di setta, ma deve essere comunicante – pur rimanendo sé stessa – e la politica, soprattutto in Italia, deve togliersi il difetto tipicamente italico e greco (loro hanno la chiesa ortodossa) che tutto quello che noi facciamo coinvolge le sfere celesti e le alte cose. Quando ero ragazzino mi dicevo ma Cristo: non è nato 2000 anni fa per dirmi come votare al quartiere a Modena oggi! Teniamo presenti i passaggi, per non mischiare Cristo con le questioni di quartiere, ma anche per non mischiare il quartiere con le dimensioni dell’eterno e dell’assoluto, perché è così che si distruggono gli assoluti, e si finisce come oggi per essere una generazione molto più brava a pensare ai cagnolini che agli esseri umani.

(Considerazioni finali, dopo gli interventi)

Ho sentito giustamente parlare del rischio che le posizioni della chiesa diventino ordini ai quali i politici cattolici devono obbedire. Qualcuno parla di scomunica, io la leggo come un’azione di lobbing.

E’ ovvio che la comunità italiana a Cincinnati, che ha eletto un suo rappresentante nell’amministrazione, pretende che questo risponda alla comunità che lo ha espresso. Altrimenti vota per un altro. Dipende tutto da come si percepisce la chiesa nella nostra società, e come si percepiscono i simboli di fede, se come segni “civili” che caratterizzano l’essere italiani oggi (ed è il discorso del “non possiamo non dirci cattolici”, ovvero figli di una tradizione, di una cultura, di una simbologia ben precisa), oppure come segni specifici dell’appartenenza, e dell’adesione completa, ad una comunità. 

Se la chiesa italiana segue il modello della chiesa a Singapore, dove saranno il 5% o meno, allora è evidente che chiede al suo rappresentante eletto di portare avanti le proprie rivendicazioni, le proprie battaglie, altrimenti lo “scomunica” nel senso che cambia riferimento, non lo vota più. E’ esattamente il concetto di lobbing del mondo anglosassone. Quindi non ne farei un dramma, sono meccanismi del tutto naturali e spiegabili.
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