Da un lato la fideistica convinzione dei costruttori che "deregolato è bello", dall'altra l'idea dei Comitati che costruire infrastrutture significhi suscitare nuovo traffico. Osserviamo piuttosto con obiettività quanto avviene in altri territori...
Il Domani di Bologna, 16 ottobre, pagina 6
Nel percorso partecipativo (denominato “Bologna, città che cambia”) avviato dal Comune di Bologna intorno al nuovo Piano Strutturale Comunale, giunto la scorsa settimana al terzo incontro plenario (6 ottobre), ho ascoltato alcuni interventi che inducono a riflettere sul residuo di preconcetti ideologici in materia urbanistica.
Il primo pregiudizio è emerso dall’intervento di Marco Buriani, presidente del collegio costruttori, che insiste a chiedere al Comune maggiore flessibilità nella destinazione dei suoli. La proposta dei costruttori è dunque quella di un Piano strutturale che in sostanza si limiti a indicare come edificabili alcune aree, senza precisare a quale scopo. Residenze o fabbriche, spazi commerciali o scuole, l’importante è codificare il diritto ad aprire un cantiere, mantenendo mani libere sul “che cosa” poi edificare, da decidersi sulla base della “domanda” del momento.
In proposito, mi limito a citare un fatto sotto gli occhi di tutti, relativo alla situazione urbana del Veneto, nel cuore di quel nord-est italiano che nei decenni passati ha espresso la più alta crescita economica del paese, accompagnata da uno sviluppo urbanistico molto libero, all’insegna della più ampia flessibilità nella destinazione del territorio. Il risultato misurabile da chiunque, ma patito in particolare dai cittadini e dalle imprese di quel territorio, è che questa flessibilità ha prodotto, nella fascia pedemontana tra Padova e Treviso , una “marmellata” di urbanizzazione sparsa e mista alla campagna, dove si alternano disordinatamente condomini, fabbriche, ipermercati, villette, capannoni e parcheggi, con il conseguente tortuoso reticolo di strade o stradine di accesso a ciascuno di questi insediamenti, cresciuti in modo indipendente da un disegno generale.
Il minimo di vincoli urbanistici ha generato il massimo di ostacoli fisici alla mobilità e allo sviluppo: una situazione che impone oggi tempi di percorrenza (di persone e di merci) insostenibili, penalizzando la competitività delle imprese (nell’epoca del “just in time” si pagano care le mezze giornate di ritardo prima nell’approvvigionamento delle materie prime, e poi nella consegna del prodotto finito…), e peggio ancora rendendo impossibile la progettazione di qualsiasi infrastruttura risolutiva, vista l’occupazione disordinata e sparsa di tutto il territorio.
Allora domando a Buriani: chi ha a cuore il mondo delle imprese e la tenuta del sistema produttivo bolognese può oggi onestamente sostenere – alla luce dei dati empirici, non delle teorie accademiche – la flessibilità urbanistica come strategia valida per lo sviluppo e la crescita economica del territorio? A breve termine, certamente l’attività edilizia “tira”, portando lavoro alle imprese di costruzioni, e ad altre nell’indotto. Ma a medio e lungo termine mi pare evidente che ad emergere come qualitativamente migliori, sia per la vita delle persone, sia per l’efficienza delle imprese, sono i territori che hanno saputo tenere in mano e guidare lo sviluppo urbanistico secondo linee di interesse generale. Su Bologna, vogliamo puntare all’uovo oggi, o alla gallina domani?
Il secondo intervento che mi ha preoccupato è stato quello di una cittadina, impegnata in una associazione (non ne ricordo il nome) ed esponente di una rete di comitati, che ha ritenuto di ravvisare una contraddizione nei documenti preparatori del PSC laddove da un lato dichiara di voler premiare la mobilità “debole” (pedoni e ciclisti), e dall’altro prevede la realizzazione del passante autostradale a nord di Bologna, espressione – secondo lei – del trionfo della cultura dell’automobile, e alternativo al Servizio Ferroviario Metropolitano (SFM).
Anche qui, dispiace dover ribadire cose ovvie. Domando: il fatto che oggi il 35% del traffico merci nazionali passi dal “nodo di Bologna”, che vuol dire – per come si è sviluppata la città – in mezzo alle nostre periferie, alle nostre case, è un vantaggio o uno svantaggio per l’utenza debole della città? Allontanare questo flusso di attraversamento di auto e camion (decine di migliaia di veicoli tutti i giorni) dalla nostra area urbana è una scelta per o contro una città più vivibile?
E come si può dire o anche solo pensare che una bretella autostradale che si sviluppa ad arco tra Ozzano, Funo e Anzola Emilia, per intercettare ed allontanare dal capoluogo il traffico di attraversamento dei 4 assi autostradali di Milano, Padova, Ancona e Firenze, possa mai essere alternativo al SFM, che al contrario si sviluppa a raggiera dal capoluogo lungo le 8 radiali di Modena, Crevalcore, San Giorgio di Piano, Medicina, Imola, Pianoro, Porretta e Vignola, allo scopo di intercettare e spostare da gomma a ferro il pendolarismo quotidiano in entrata e uscita dall’area urbana?
Certo, il SFM è indietro. Certo, manca una gestione unitaria e integrata delle 8 linee. Certo, per funzionare appieno deve attendere la liberazione dei binari della stazione dai treni a lunga percorrenza, che viaggeranno nel tunnel dell’alta velocità. Consapevoli di questo, come Provincia stiamo cercando di monitorare mese per mese lo stato di attuazione dei vari “pezzi” che insieme soltanto renderanno possibile il funzionamento del SFM: le uscite della Commissione Trasporti a toccare con mano i disagi degli utenti sulle varie tratte, come anche a verificare l’avanzamento delle opere per l’alta velocità, fanno parte di questo lavoro.
Ma per costruire una città migliore occorre anche superare pregiudizi e dogmatismi che impediscono di guardare in faccia alla realtà, e sono utili soltanto a un noioso gioco delle parti tra letture ideologiche tanto opposte quanto sterili.
Andrea De Pasquale
Presidente Commissione Provinciale “Pianificazione, Trasporti, Viabilità”.