Andrea De Pasquale

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Bologna e dintorni, aprile 2017. Referendum, riforme, primarie: il quadro nazionale.

Giovedì 27 aprile 2017

Cari amici,

rieccomi alla nota politica dopo molti mesi di silenzio. Dati i tanti argomenti accumulati, ho pensato di dividere i temi nazionali (a cui dedico questa newsletter) da quelli locali, di cui scriverò a breve, già nei prossimi giorni. E da oggi mi riprometto di mantenere un ritmo più frequente e testi più brevi (per quanto possibile).

Rammento che potete trovare le newsletter precedenti sul mio sito, e che per non ricevere più questi messaggi è sufficiente chiedermi la cancellazione da questa lista. Se avete amici interessati segnalatemi la loro e-mail.

3 gli argomenti di questa edizione:

1. ANALISI DEL VOTO REFERENDARIO. LE RAGIONI DEL NO E 3 CONSIDERAZIONI

2. RIFORME CONDIVISE… MA CON CHI? TRA UNANIMISMO E INTRANSIGENZA

3. APPELLO AL VOTO ALLE PRIMARIE DI DOMENICA

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1. ANALISI DEL VOTO REFERENDARIO. LE RAGIONI DEL NO E 3 CONSIDERAZIONI

Riprendo da dove ci siamo lasciati, ovvero il referendum del 4 dicembre. Che è stato per l’Italia uno dei passaggi politici più importanti degli ultimi anni, e dal quale non possiamo prescindere.

Sapete quanto mi sono speso per il Sì, e potete immaginare la mia delusione per questa occasione mancata dal nostro sistema istituzionale e di conseguenza per la nostra economia. Ma se si accettano le regole del gioco democratico, si accettano sempre anche i risultati, che piacciano o meno. Quindi nessun rimpianto e nessuna recriminazione: gli italiani hanno deciso, oltretutto con un’ampia partecipazione al voto (oltre il 65%) e con un pronunciamento netto (60 a 40 per il NO).

Accettare regole e risultati della democrazia non significa soltanto chinare la testa davanti alle scelte della maggioranza (colta o ignorante, informata o ingannata che sia), ma anche provare a comprenderne la logica. Da un po’ di letture e di dialoghi con persone che hanno scelto il NO sono arrivato a classificare in tre nuclei le ragioni del voto che ha vinto.

A – Il “No di merito”. Si tratta di una componente minoritaria, ma significativa, di “buongustai del diritto costituzionale” a cui la riforma è sembrata pasticciata, confusa e mal scritta, di cui ho fatto esperienza anche diretta, in diversi confronti su Facebook o di persona.

B - Un “No a Renzi”, numericamente molto più consistente, che di fatto ha messo in secondo piano i contenuti del referendum chiamando ad un voto pro o contro il governo. Cito in proposito il buon Paolo Giuliani (già consigliere comunale, oggi Officina delle Idee): “(Renzi) ha sollevato durante la campagna referendaria un livello altissimo di insofferenza radicale per la sua immagine e il suo discorso… Un rifiuto profondo che ha preso corpo giorno dopo giorno configurando un vero e proprio rigetto della sua proposta… Si pensi solo alla continua carica di ottimismo, agli infiniti annunci, al senso di onnipotenza per cui prima di Renzi è stato tutto un disastro, mentre da lui si apriranno nuovi e definitivi orizzonti”.

Che la spinta ottimistica di Renzi, vista da chi non se la passa affatto bene, rischiasse di passare per arroganza e negazione dei problemi, è un’osservazione che mi ha colpito e mi ha fatto riflettere. Perché non ci avevo pensato. E perché è ahimè confermata dal fatto che le più alte percentuali del NO sono venute dalle aree geografiche e dalle fasce sociali più sofferenti e meno garantite.

C – Un No ad una politica governante. Ma la ragione più profonda e diffusa che ha sostanziato il NO è un’altra, e la dico con le parole di un amico oggi totalmente infatuato da Grillo, che mi ha spiegato così la loro unanime scelta di campo (nonostante la riduzione dei costi della politica fosse anche un loro obiettivo): “Ma tu Andrea, se non ti fidi del guidatore, preferisci dargli un pullman che va piano o che va forte?” Ed è questa profonda disistima della politica, in effetti, la ragione unificante di molti voti contro la riforma, da destra e da sinistra: la convinzione per cui, con questo personale politico (di qualsiasi parte e colore) alla guida, dotare il sistema di strumenti più efficienti può diventare pericoloso.

Riemerge qui l'idea, tipicamente italica, che il popolo debba soprattutto difendersi dal governo (e dallo Stato), perché in fondo siamo bravi ad arrangiarci da soli; e che quindi una politica imbelle tutto sommato ci garantisce meglio del contrario, e un sistema istituzionale dispersivo e inconcludente (che ha prodotto 68 governi in 70 anni) va poi bene, perché ci tutela dall'uomo forte, o più semplicemente da un governo in grado di governare davvero, lasciandoci in sostanza fare come abbiamo sempre fatto. Una posizione legittima, che teorizza la debolezza non solo dei governi, ma più in generale della politica e delle istituzioni, come garanzia per il benessere della società e della cittadinanza.

Ma con una politica strutturalmente e volutamente indebolita, diventa poi difficile affrontare problemi che richiederebbero invece istituzioni e politiche forti, come l'abusivismo, l'evasione, l'illegalità diffusa e la criminalità organizzata, e in generale i grandi mali sociali e politici del nostro Paese, figli a pieno titolo di questa concezione di politica pericolosa e quindi auspicabilmente debole. In proposito vi consiglio di leggere il breve articolo di Eric Jozsef su Internazionale dello scorso 30 novembre (non metto il link diretto per problemi di filtri antispam, ma se cercate “Eric Jozsef - con il referendum si decide la forza dei governi del futuro” lo trovate).

Per contro, il Sì ha vinto in alcune delimitate aree del Paese: tra queste, oltre a Trentino Alto Adige e Toscana, anche qui a Bologna (sia in città che in provincia) con oltre il 52% (come anche a Modena, a Forlì, a Cesena). Non credo che questo risultato si debba ad una particolare capacità di manovra “militare” del PD, quanto piuttosto per il fatto che in queste aree la cultura di governo è abbastanza forte, anche a sinistra, e tutto sommato le istituzioni godono ancora di quel minimo di credito da meritare un’ipotesi di rafforzamento dei poteri.

Credo che in queste tre fondamentali “ragioni del NO”, spesso anche sovrapposte, si riassumano la maggioranza dei tanti percorsi individuali (emotivi e logici) che hanno portato gli italiani a bocciare la riforma.

A questo punto faccio tre considerazioni mie.

La prima è che il voto referendario ci consegna un Paese che, mentre da un lato rifiuta di rafforzare le leve in mano alla politica, e preferisce un sistema istituzionale più orientato alla rappresentanza e meno al governo, (con conseguente approdo proporzionalista in termini di legge elettorale), esprime d’altro canto un profondo malessere sociale per la crescente divaricazione tra poveri e ricchi, e una forte domanda di protezione e garanzia. E qui colgo una contraddizione: come farà una politica volutamente debole a rispondere a questa domanda? E come sarà possibile contrastare la povertà restando attaccati ad un sistema iper-rappresentativo (e poco governante) quando l’economia globale sta premiando (con investimenti e posti di lavoro) le aree e i sistemi pubblici dove la politica è in grado di offrire governabilità, regole certe e stabilità? E come creare lavoro se i maggiori tassi di crescita e di mobilità sociale si registrano laddove è accettato un maggior tasso di rischio e di opportunità piuttosto che un sistema di garanzie e tutele che finiscono col premiare conservazione e rendita? Anch’io, potendo scegliere, preferirei un mondo dove crescita e lavoro vanno insieme a tutela dei diritti e prevedibilità del mercato: prendo atto però che noi stessi, in quanto consumatori, stiamo premiando con le nostre scelte quotidiane di spesa le produzioni “low cost” a tutti i livelli, e la conseguente precarizzazione del mercato e l’impoverimento del lavoro. Quindi la scelta operata a dicembre dagli italiani rischia di andare nella direzione opposta all’intenzione con cui molti l’hanno fatta.

La seconda considerazione è che con la vittoria del NO abbiamo assistito al capolavoro di una rabbia anti-casta (ancora ben viva e presente, come dimostra il perdurante consenso ai 5 stelle) che a un certo punto è stata intercettata dalla parte più intoccabile della stessa casta, e da questa pilotata contro un tentativo di cambiamento. A perorare la causa nel NO abbiamo visto in prima fila leader politici storici (direi praticamente tutti, da destra a sinistra, tranne Renzi), alte burocrazie pubbliche, membri delle supreme magistrature, vaste clientele che prosperano tra Stato e parastato. Questa torsione ipercastale della ribellione anticasta (che ha ampi precedenti storici in molte fasi rivoluzionarie, dove la rabbia popolare veniva sapientemente manovrata contro i gradi più bassi del privilegio, con risultato di blindare quelli più alti) si salda oggi in Italia con l’insofferenza per le politiche di austerità e di rientro del debito, e con la nostalgia del ritorno alla spesa allegra e irresponsabile. Una situazione che non mi rallegra, e che spiega anche il successo delle posizioni più populiste e semplificatorie (dal reddito di cittadinanza alla cacciata in massa degli immigrati).

La terza considerazione è che, col senno di poi, forse avevano ragione quelli che avevano proposto di “spacchettare” le riforme. Secondo una ricerca pubblicata su La Stampa (“Renzi e il referendum: agli italiani piacevano le singole riforme, non chi le ha proposte” 11 febbraio 2017, a firma Paolo Martini), alcuni singoli interventi contenuti nella riforma avrebbero ottenuto una larga maggioranza. “…La ricerca, presentata dal presidente dell’Itanes Paolo Bellucci ad un convegno sul referendum costituzionale che si è svolto nel Rettorato della Sapienza, offre diversi spunti interessanti anche se il più significativo resta la dimostrazione della distanza tra il gradimento per le singole riforme e il giudizio sul complesso dei provvedimenti. Le principali riforme istituzionali incontravano il favore maggioritario degli interpellati: la riduzione dei senatori del 71,3% degli interpellati, l’abbassamento del quorum per i referendum abrogativi del 58,3%, l’abolizione del bicameralismo paritario del 52,3%... Ma poi alla domanda quale fosse il «giudizio complessivo» su queste riforme, soltanto il 39,4% ha dato una risposta positiva…”

D’altronde, con la polarizzazione “Renzi contro tutti” (che comunque sarebbe avvenuta per volontà delle altre forze politiche, anche se Renzi non avesse messo la propria faccia sulla riforma e non avesse legato il proprio destino all’esito del referendum) diventava difficile fare meglio. Se guardiamo ai numeri assoluti, in 10 anni di vita l’elettorato del PD è sempre oscillato, tra gli 8 a i 12 milioni di voti. Al referendum il Sì ha ottenuto 13.432.000 voti, ovvero un numero nettamente superiore a quello che portò al famoso 40% alle Europee. Restando nel bacino elettorale storico di una forza di sinistra riformista, contro cui erano schierate tutte le altre, di destra, di sinistra e fuori schema (5 Stelle), era oggettivamente difficile andare oltre.

2. RIFORME CONDIVISE… MA CON CHI? TRA UNANIMISMO E INTRANSIGENZA

C’è un altro elemento che mi ha colpito nella vicenda referendaria, e si tratta dell’incapacità a comprendere (o del rifiuto di accettare) che in democrazia qualsiasi riforma va fatta a partire da una maggioranza.

Molti amici sostenitori del NO mi hanno spiegato, con sincera convinzione, che la riforma avrebbe dovuto – secondo alcuni – azzerare totalmente il Senato, oppure – secondo altri – al contrario lasciarlo elettivo ma ridurre il numero di parlamentari. Che per essere votabile la riforma avrebbe dovuto prevedere un taglio più robusto ai consiglieri regionali, oppure all’opposto nessun taglio perché non è quello il problema; che per ridurre i costi si sarebbe dovuto iniziare dalle regioni a statuto speciale, anzi no dalle aziende partecipate o meglio ancora dagli stipendi dei funzionari ministeriali, e così via. Insomma, tante voci, ciascuna con una idea originale di come andrebbe riformata l’Italia, ciascuna con una lista di priorità diversa, ciascuna inconciliabile con quelle altrui.

Queste stesse voci (amici appassionati della cosa pubblica, ma anche firme di intellettuali sui giornali) ci spiegavano in un sol colpo che questa riforma aveva due difetti fondamentali.

Il primo difetto era quello di essere divisiva: non a caso la campagna referendaria è stata scandita da frasi come “La costituzione si cambia insieme, non a colpi di maggioranza!” oppure “Perché non fare invece una riforma condivisa?” O anche “La Costituzione ha certamente bisogno di un restyling, ma non così, non con questo brutto anatroccolo, frutto di alchimie parlamentari” (Ricolfi sul Sole 24 Ore, il 6 dicembre).

Il secondo difetto era quello di essere stata portata avanti col voto di forze politiche “spurie” rispetto al PD e alla cultura di sinistra, l’unica evidentemente titolata a fare le riforme.

Ma come possono stare insieme l’aspirazione all’unanimismo e l’intransigenza verso qualsiasi compromesso?

Questi discorsi, molto letti e molto sentiti prima e dopo il voto del 4 dicembre, secondo me evidenziano un grave difetto di cultura istituzionale e democratica, anche da parte di persone colte e non digiune di politica, che però al dunque (ovvero, davanti alle occasioni reali di cambiamento) sfoderano un idealismo utopista che da pre-politico diventa facilmente antipolitico, e che è alla base di quella “democrazia immatura” che caratterizza il nostro Paese.

Si può infatti rifiutare una riforma perché difettosa, perché contraddittoria, perché figlia di compromessi e accordicchi, perché negoziata tra interessi e visioni divergenti, eccetera. Ma bisogna avere un'idea alternativa, in termini di contenuti e di maggioranza politica a sostegno. Altrimenti, teorizzare un’Arcadia dove scrivere le riforme tutti insieme, in piena armonia tra tutte le forze parlamentari, e poi dire: “Non però con Verdini! Meno che mai con la Meloni! Per carità nessun accordo con Berlusconi! Lasciamo perdere Vendola e la sinistra radicale!” è incoerente e contraddittorio.

E invece tanti “maestri del riformismo”, mentre dichiarano di aspirare ad una intesa ecumenica, procedono subito a stilare la lista di quelli da escludere dal tavolo, e coi quali non possiamo sporcarci le mani. Ma questo significa esattamente rendere impossibile ogni cambiamento, ogni riforma, ogni passo avanti rispetto all’esistente.

Vi ricordate quanti politici schierati per il No (Berlusconi, Salvini, D’Alema, Grillo…) hanno affermato, nelle settimane prima del referendum, che una volta bocciata questa riforma si sarebbe fatta una nuova legge elettorale in 2 mesi, e in 6 mesi una nuova riforma costituzionale, entrambe “condivise”?

Di mesi ne sono passati ormai 5, e non solo non si è fatto nulla, ma non abbiamo notizia di alcuna iniziativa in questa direzione, tanto che nei giorni scorsi lo stesso presidente della Repubblica ha convocato i presidenti delle due Camere per sollecitarli (o supplicarli) in tal senso. Ma nel quadro frammentato attuale (e tendenzialmente orientato ad una ulteriore frantumazione, spinta dal ritorno al proporzionale) sarà assai difficile trovare una maggioranza, anche fragile e precaria, capace di portare a casa una legge elettorale che ci scampi dal rischio di due maggioranze diverse tra Camera e Senato. E figuriamoci il bicameralismo, il CNEL e tutto il resto…

Bisognava mettere insieme il 51% del popolo, invece questa riforma è stata imposta”, tuonavano i sostenitori del NO. Tanto imposta che per 6 volte era stata votata con un’ampia maggioranza da entrambi i rami del parlamento. Al di là del risultato del 4 dicembre, mi sembra che non si sia proprio capito lo sforzo enorme, e il risultato straordinario, che si era ottenuto con il raccogliere intorno ad una proposta una maggioranza parlamentare sufficiente a superare le 3 votazioni per ognuna delle Camere. Una maggioranza che in effetti si è poi liquefatta davanti al voto referendario, dove gli stessi che avevano votato a favore in aula si sono messi a fare campagna contro il testo che avevano loro stessi approvato e spesso anche emendato.

Attenzione: non sto rivangando, non sto recriminando, non sto tornando agli argomenti pre-referendum. Quello che mi interessa è analizzare l’enorme distanza tra alcuni argomenti usati (spesso utopistici) e la realtà politica che abbiamo davanti (assolutamente diversa). E fare un passo avanti in termini di consapevolezza democratica.

Provo a dirla così. In democrazia nessuna legge, nessun provvedimento, nessuna riforma può prendere consistenza e vita senza che, in un consesso di eletti, si formi una maggioranza in grado di approvarla e di portarla avanti. E creare le condizioni per formare questa maggioranza è uno dei compiti fondamentali (e più faticosi) della politica.

Ora, il fatto che tra gli argomenti più utilizzati contro la riforma vi sia stato A) che era stata votata a maggioranza (quindi non all’unanimità), e B) che tale maggioranza era “spuria” (quindi non “pura”, non fatta da persone con le stesse identiche idee politiche), mi spaventa e mi preoccupa, al di là del risultato, ormai acquisito. Mi spaventa e mi preoccupa perché denigra come un difetto, una debolezza, un vizio quello che al contrario è l’elemento basilare della vita democratica, il suo passo fondamentale, il suo respiro vitale: ovvero l’approvazione di provvedimenti a maggioranza, e l’ottenimento di tale maggioranza mediante accordi e compromessi.

Ora che non abbiamo davanti nessuna campagna elettorale, e che siamo – a livello di riforma elettorale – nella palude e nell’immobilismo più totale, spero che un minimo di consapevolezza riscuota i tanti che ho sentito dire, contemporaneamente, che le uniche riforme possibili sono quelle fatte tutti insieme in perfetto accordo, e che le uniche riforme accettabili sono quelle fatte senza sporcarsi le mani con chi la pensa diversamente. Spero cioè che si rendano conto di come questo significa condannarsi all’inconcludenza, ed aprire la strada a esiti tutt’altro che democratici.

3. APPELLO AL VOTO ALLE PRIMARIE DI DOMENICA

Domenica prossima, 30 aprile, si tengono le primarie del Partito Democratico.

Si vota dalle 8 alle 20 nei seggi istituiti presso i circoli del PD o presso centri sociali e luoghi di aggregazione. Per trovare il proprio seggio occorre sapere la propria sezione elettorale (il numero riportato sulla tessera elettorale) e andare sul sito “primarie pd 2017” (non metto il link diretto per evitare che questo messaggio finisca nello spam), dove mettendo comune e sezione elettorale si viene indirizzati al seggio delle primarie.

Sulle motivazioni la tengo breve. Con tutti i limiti e i difetti, il PD resta l’unico che offre questa possibilità ai cittadini. Di partecipare e di decidere. Secondo me è un grande pregio. Ed anche un’occasione da non mancare.

Io voterò Renzi, perché fra i tre candidati (gli altri sono Orlando ed Emiliano) mi sembra quello più adatto a ricoprire il ruolo di segretario e di candidato premier, come avviene in tutte le democrazie occidentali. E a proseguire una stagione di riforme appena iniziata.

Per ora ci salutiamo qui, ma ci risentiamo presto per parlare di questioni bolognesi: il Passante, il Servizio Ferroviario Metropolitano, l’Aeroporto… Poi i problemi di sicurezza e degrado, e la vicenda urbanistica di Idice con i suoi strascichi giudiziari e politici, che investono direttamente il PD alla vigilia del congresso provinciale. Insomma, c’è molta carne al fuoco.

Ma intanto buon voto domenica!

Andrea De Pasquale

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